Cao Yingbin: Viaggio in Occidente*

opere su carta

a cura di Monica Dematté

L’artista Cao Yingbin sarà presente all’inaugurazione della mostra
Viaggio in Occidente giovedì 6 febbraio 2020 alle ore 18.30 – Fondazione Tullio Castellani. Le opere saranno esposte fino all’8 maggio 2020 (lun-giov:10-18; ven: 10-13).
Per maggiori informazioni visita la pagina dell’evento.

«Ho perdonato a tutti quelli che perdono la testa per questa città [Napoli] (…).
Come si suol dire che colui, al quale è apparso uno spettro, non può più esser lieto, così si potrebbe dire al contrario che non sarà mai del tutto infelice
chi può ritornare, col pensiero, a Napoli.»
(J. W. Goethe, da Viaggio in Italia)

Appena Cao2 Yingbin, pittore di Zhengzhou nello Henan, mi ha mostrato la nuova serie di opere qui in visione, due riferimenti a epoche e “classicità” diverse mi sono subito venuti in mente: il leggendario Viaggio in Occidente di un monaco cinese verso l’India alla ricerca dei sacri testi buddhisti, e – a noi più vicino – il Viaggio in Italia di Goethe e dei tanti pittori e letterati che dalla fine del Cinquecento e soprattutto nel Seicento e Settecento visitarono l’Italia alla ricerca di spunti di bellezza da annotare sui taccuini e con cui nutrire gli spiriti.

j

Monica Dematté

Vive e lavora fra l’Italia e la Repubblica Popolare Cinese da oltre 30 anni, è curatrice e critica indipendente di arte contemporanea, scrittrice. Dal 2014 è la direttrice artistica del Mo Art Space 칭왕쇌 a Xinmi, Henan. Ha lavorato come curatrice presso il Singapore Art Museum e la Shanghai Gallery of Art e collaborato con la Biennale di Venezia.
Cao Yingbin negli ultimi anni ha compiuto parecchi viaggi in Europa, e in special modo in Italia. Li ha fatti da letterato, da persona sensibile e attenta, curiosa e aperta, con un ritmo che permetta di gustare in profondità atmosfere e opere, sebbene sentendosi a volte oberato dalla quantità di cose da vedere. Li ha fatti informandosi con attenzione sui luoghi più in linea con i suoi gusti, più vicini alla sua ricerca personale, evitando dove possibile il sentiero battuto dal turismo di massa. Il risultato è davanti a noi: una versione intima e delicata, poetica e “personale” di vedute famose, di angoli di musei, di opere conosciute, che nei suoi acquerelli diventano qualcos’altro. Qualcosa di tutto suo, che arricchisce la nostra conoscenza un po’ stereotipata, un po’ distratta, di una nuova prospettiva, in scala ridotta ma raccolta e attenta. A me pare che Cao Yingbin, ostentando una tecnica volutamente naif, stia cercando di recuperare – per se stesso e per noi – i sentimenti più veri, più diretti, che sgorgano dalla religiosità semplice, dallo stupore autentico, dalla gioia che la bellezza sempre suscita. Quei sentimenti Cao li percepisce nelle opere che osserva con attenzione, nei luoghi in cui si sofferma, perché li ha coltivati dentro di sé. Sono d’accordo con Stefan Zweig quando scrive, nel suo Il mistero della creazione artistica che «un’opera d’arte non si concede a nessuno al primo sguardo (…). Per avere la giusta percezione dobbiamo condividere le sensazioni che l’artista ha provato (…), capire contro quali resistenze le ha realizzate. Dobbiamo ricostruire dentro alle nostre anime [quelle degli artisti]. Ogni vero piacere non è mai una pura ricezione ma un prendere parte interiormente all’opera».
Nel nostro caso c’è un’azione doppia: quella di Cao che, in quanto persona proveniente da un’altra cultura, si avvicina a simboli, linguaggi e paesaggi nuovi e diversi dopo essersi reso in grado di farli risuonare dentro di sé perché nel corso degli anni ha coltivato simboli, linguaggi e paesaggi appartenenti alla “sua” cultura nativa, e così facendo ha affinato la propria sensibilità e capacità di comprensione e immedesimazione. E poi ci siamo “noi”, detentori distratti di “quella” cultura, assuefatti a “quei” paesaggi, poco attenti visitatori di musei la cui esistenza è troppo scontata perché ci rendiamo conto veramente del loro valore, della loro importanza e della fortuna che abbiamo a poterli frequentare quotidianamente. “Noi” che abbiamo qui l’occasione di rivedere – riguardare – il “nostro” retaggio culturale (di cui tutte le opere di Cao sono intrise) con gli occhi di un “altro” che proviene da una cultura altrettanto o più antica, altrettanto alta e profonda. Solo peggio conservata.

Vorrei qui citare parte di un testo che scrissi tre anni fa su una serie di lavori dedicati da Cao alle opere della sua tradizione, perché mi sembra che ci aiuti a capire meglio quelli odierni.

«Mi hanno sempre incuriosito le opere di Cao contenenti immagini sacre, templi, tombe imperiali, manifestazioni religiose, perché mi pare che il suo non sia né un intento puramente documentaristico, né quello di un devoto. Quando, qualche anno fa, in Italia espose una serie di opere tutte dedicate ai personaggi dell’olimpo buddhista, dopo una prima perplessità ne diedi la mia interpretazione. Quelle figure di arhat, di bodhisattva, altro non sono che gli aspetti più elevati della natura umana, e la loro esistenza in un dipinto, nella fattispecie, può ricordarci che anche noi possiamo incarnarli in maggiore o minore misura. Mi sembra inoltre che Cao stia coltivando un dialogo allargato con tutto quello che lo circonda, in maniera sia orizzontale sia verticale. Cioè, con gli aspetti della contemporaneità (e questo gli costa più fatica) e con le pre-esistenze del passato. Ecco il perché della sua frequentazione assidua di luoghi ricchi di testimonianze dell’antichità e di opere appartenenti alla grande tradizione della cultura soprattutto del suo paese. C’è il desiderio e la necessità di recuperare la parte “alta” della cultura classica, di riappropriarsene dopo che le recenti vicende storiche l’hanno resa estranea, nella consapevolezza che la statura di quella cultura ha pochi uguali al mondo, e costituisce per tutti – ma soprattutto per chi è cinese – un valore assoluto. L’approccio di Cao però non è intellettuale, da erudito: è legato alla sua crescita di uomo e di artista. La pittura e anche la calligrafia, che da qualche anno pratica regolarmente, sono per Cao un modo intimo e profondo di interrogarsi sul senso della propria vita, sul ruolo di essere umano calato sì in un particolare momento temporale e geografico, ma anche – secondo una visione più vasta come (e non solo) quella buddhista – superiore alla nascita e alla morte, al passato e al futuro. Nei piccoli dipinti ad acquerello, alcuni realizzati durante i frequenti vagabondaggi dell’artista, vediamo spesso persone molto comuni – a gruppi o da sole – mettersi in relazione con steli, con sculture rituali, con templi, con antichi dipinti murali (Dunhuang, Yulin, Maijishan…). Oppure trovarsi in luoghi particolarmente pregnanti, come le vie sacre che conducevano ai grandi tumuli tombali, a volte anche senza rendersene conto, ignari dell’atmosfera che vi regna e del valore simbolico e religioso che rappresentano. C’è spesso una punta di grottesco in queste scene, laddove le vestigia dell’antichità troneggiano con la loro immobile ieraticità su gruppi umani sciamanti, un po’ goffi in abiti poco curati e in posizioni così poco eleganti ma sinceri nella loro curiosità, nel loro desiderio di penetrare il significato di quegli artefatti così preziosi, così perfetti, risultato evidente di una perizia ormai scomparsa in un mondo che pur ha fatto della tecnica il suo credo. C’è chi le opere d’arte le guarda solo in quanto tali e c’è chi – come Cao – vi si immerge per sentirle risuonare all’interno del ritmo dell’universo. Un universo in cui uomo e natura non sono separati, ma partecipano di una sola realtà vitale. Per certi versi in questi acquerelli la dimensione dell’antico è chiaramente divisa da quella contemporanea – l’antico è immobile, silente, evocativo, si mostra agli occhi degli uomini d’oggi con tutti i suoi misteri. Ma la convivenza dei due aspetti allude alla coesistenza di molte questioni, al continuo corso e ricorso della vita, per cui – come in un episodio della vita di Gautama – un semplice fiore può assurgere a simbolo assoluto di tutto quanto c’è, c’è stato e ci sarà.»

Dopo aver cominciato a frequentare l’Italia, dentro Cao è cresciuto un senso – diffuso fra i suoi concittadini sensibili e istruiti – di “mancanza” causato dallo scempio di architetture e artefatti perpetrato in Cina negli ultimi settant’anni. È una dolorosa sensazione di impotenza, acuita dal pericolo sempre più concreto che il collegamento con il grande passato della cultura cinese sia ormai reciso, che non sia più possibile frequentarlo in maniera intima e spontanea. Perché il poco rimasto è visibile solo in rare occasioni all’interno degli istituti museali, ma non fa più parte della quotidianità.

La dovizia di opere d’arte, le atmosfere d’altri tempi, i luoghi disseminati di vestigia, il ritmo ancora lento e la dimensione a misura d’uomo di molti luoghi europei, italiani (ma anche della Tailandia, che vediamo in alcune riproduzioni) acuiscono in Cao la nostalgia di un tempo in cui anche nel suo paese la vita aveva un altro gusto, e la bellezza era creata, diffusa e capita a vari livelli.

In un’epoca in cui gli artisti fanno a gara a creare opere sempre più grandi, dalle qualità spesso progettate per suscitare uno stupore anche solo effimero, i lavori di Cao Yingbin ci sorprendono per le dimensioni da miniatura, per il materiale deperibile e ‘povero’, per l’aspetto poco appariscente. Sono appunti di viaggio rielaborati in studio, riflessioni di un pittore che ama la pratica della calligrafia e le sue sottili sfumature espressive, e le applica con naturalezza in pittura. Sono opere da guardare a distanza ravvicinata, da tenersi accanto, con cui instaurare un rapporto intimo e personale. Sono immagini di soggetti familiari che, interpretate dal sensibile pennello di Cao, suscitano e ravvivano, arricchiscono e colorano ricordi tutti nostri. Ci stimolano a tornare a vedere un’opera, un museo, un paesaggio che conosciamo bene ma che giace sbiadito o distorto in qualche angolo della memoria. Sono frammenti di album, adatti a essere goduti a tu per tu, magari tenuti nascosti in un cassetto e mostrati, con parsimonia, solo a persone in grado di apprezzarli. Oppure da collocare in una stanza speciale, accanto ai libri più cari.

Il punto di vista di Cao, i suoi colori delicati, i suoi particolari a volte divertiti, ironici o grotteschi, altre disarmanti testimoniano l’importanza dello sguardo soggettivo e del suo ruolo creativo. Ci ricordano che solo un approccio attivo e consapevole a tutto quello che ci circonda – e alla nostra stessa esistenza – lo riempie di senso, diverso per ognuno di noi.

Vigolo Vattaro, 27 gennaio 2020


* Il Viaggio in Occidente è uno dei romanzi classici cinesi, attribuito al letterato Wu Cheng’en e risalente al sedicesimo secolo. In Italia è più conosciuto con il titolo Lo Scimmiotto, dalla figura del personaggio principale Sun Wukong: una scimmia molto intelligente dai poteri magici immensi, dal carattere capriccioso e insofferente all’autorità. Nel romanzo si raccontano le vicissitudini del monaco Chen Hui (ispirato a Xuan Zang, figura realmente esistita) che parte verso l’India in cerca delle Sacre Scritture Buddhiste, accompagnato da quattro creature in grado di difenderlo: oltre a Sun Wukong, Tian Peng (Porcellino), Sha Wujing (Sabbioso) e Yulong Santaizi (Cavallo-Drago).
1. Leggi Zao con la z aspirata come in zucchero.

Cao Yingbin: Viaggio in Occidente*

opere su carta

a cura di Monica Dematté

L’artista Cao Yingbin sarà presente all’inaugurazione della mostra Viaggio in Occidente giovedì 6 febbraio 2020 alle ore 18.30 – Fondazione Tullio Castellani. Le opere saranno esposte fino all’8 maggio 2020 (lun-giov:10-18; ven: 10-13). Per maggiori informazioni visita la pagina dell’evento.

«Ho perdonato a tutti quelli che perdono la testa per questa città [Napoli] (…).
Come si suol dire che colui, al quale è apparso uno spettro, non può più esser lieto, così si potrebbe dire al contrario che non sarà mai del tutto infelice
chi può ritornare, col pensiero, a Napoli.»
(J. W. Goethe, da Viaggio in Italia)

Appena Cao2 Yingbin, pittore di Zhengzhou nello Henan, mi ha mostrato la nuova serie di opere qui in visione, due riferimenti a epoche e “classicità” diverse mi sono subito venuti in mente: il leggendario Viaggio in Occidente di un monaco cinese verso l’India alla ricerca dei sacri testi buddhisti, e – a noi più vicino – il Viaggio in Italia di Goethe e dei tanti pittori e letterati che dalla fine del Cinquecento e soprattutto nel Seicento e Settecento visitarono l’Italia alla ricerca di spunti di bellezza da annotare sui taccuini e con cui nutrire gli spiriti.

Cao Yingbin negli ultimi anni ha compiuto parecchi viaggi in Europa, e in special modo in Italia. Li ha fatti da letterato, da persona sensibile e attenta, curiosa e aperta, con un ritmo che permetta di gustare in profondità atmosfere e opere, sebbene sentendosi a volte oberato dalla quantità di cose da vedere. Li ha fatti informandosi con attenzione sui luoghi più in linea con i suoi gusti, più vicini alla sua ricerca personale, evitando dove possibile il sentiero battuto dal turismo di massa. Il risultato è davanti a noi: una versione intima e delicata, poetica e “personale” di vedute famose, di angoli di musei, di opere conosciute, che nei suoi acquerelli diventano qualcos’altro. Qualcosa di tutto suo, che arricchisce la nostra conoscenza un po’ stereotipata, un po’ distratta, di una nuova prospettiva, in scala ridotta ma raccolta e attenta. A me pare che Cao Yingbin, ostentando una tecnica volutamente naif, stia cercando di recuperare – per se stesso e per noi – i sentimenti più veri, più diretti, che sgorgano dalla religiosità semplice, dallo stupore autentico, dalla gioia che la bellezza sempre suscita. Quei sentimenti Cao li percepisce nelle opere che osserva con attenzione, nei luoghi in cui si sofferma, perché li ha coltivati dentro di sé. Sono d’accordo con Stefan Zweig quando scrive, nel suo Il mistero della creazione artistica che «un’opera d’arte non si concede a nessuno al primo sguardo (…). Per avere la giusta percezione dobbiamo condividere le sensazioni che l’artista ha provato (…), capire contro quali resistenze le ha realizzate. Dobbiamo ricostruire dentro alle nostre anime [quelle degli artisti]. Ogni vero piacere non è mai una pura ricezione ma un prendere parte interiormente all’opera».
Nel nostro caso c’è un’azione doppia: quella di Cao che, in quanto persona proveniente da un’altra cultura, si avvicina a simboli, linguaggi e paesaggi nuovi e diversi dopo essersi reso in grado di farli risuonare dentro di sé perché nel corso degli anni ha coltivato simboli, linguaggi e paesaggi appartenenti alla “sua” cultura nativa, e così facendo ha affinato la propria sensibilità e capacità di comprensione e immedesimazione. E poi ci siamo “noi”, detentori distratti di “quella” cultura, assuefatti a “quei” paesaggi, poco attenti visitatori di musei la cui esistenza è troppo scontata perché ci rendiamo conto veramente del loro valore, della loro importanza e della fortuna che abbiamo a poterli frequentare quotidianamente. “Noi” che abbiamo qui l’occasione di rivedere – riguardare – il “nostro” retaggio culturale (di cui tutte le opere di Cao sono intrise) con gli occhi di un “altro” che proviene da una cultura altrettanto o più antica, altrettanto alta e profonda. Solo peggio conservata.

Vorrei qui citare parte di un testo che scrissi tre anni fa su una serie di lavori dedicati da Cao alle opere della sua tradizione, perché mi sembra che ci aiuti a capire meglio quelli odierni.

«Mi hanno sempre incuriosito le opere di Cao contenenti immagini sacre, templi, tombe imperiali, manifestazioni religiose, perché mi pare che il suo non sia né un intento puramente documentaristico, né quello di un devoto. Quando, qualche anno fa, in Italia espose una serie di opere tutte dedicate ai personaggi dell’olimpo buddhista, dopo una prima perplessità ne diedi la mia interpretazione. Quelle figure di arhat, di bodhisattva, altro non sono che gli aspetti più elevati della natura umana, e la loro esistenza in un dipinto, nella fattispecie, può ricordarci che anche noi possiamo incarnarli in maggiore o minore misura. Mi sembra inoltre che Cao stia coltivando un dialogo allargato con tutto quello che lo circonda, in maniera sia orizzontale sia verticale. Cioè, con gli aspetti della contemporaneità (e questo gli costa più fatica) e con le pre-esistenze del passato. Ecco il perché della sua frequentazione assidua di luoghi ricchi di testimonianze dell’antichità e di opere appartenenti alla grande tradizione della cultura soprattutto del suo paese. C’è il desiderio e la necessità di recuperare la parte “alta” della cultura classica, di riappropriarsene dopo che le recenti vicende storiche l’hanno resa estranea, nella consapevolezza che la statura di quella cultura ha pochi uguali al mondo, e costituisce per tutti – ma soprattutto per chi è cinese – un valore assoluto. L’approccio di Cao però non è intellettuale, da erudito: è legato alla sua crescita di uomo e di artista. La pittura e anche la calligrafia, che da qualche anno pratica regolarmente, sono per Cao un modo intimo e profondo di interrogarsi sul senso della propria vita, sul ruolo di essere umano calato sì in un particolare momento temporale e geografico, ma anche – secondo una visione più vasta come (e non solo) quella buddhista – superiore alla nascita e alla morte, al passato e al futuro. Nei piccoli dipinti ad acquerello, alcuni realizzati durante i frequenti vagabondaggi dell’artista, vediamo spesso persone molto comuni – a gruppi o da sole – mettersi in relazione con steli, con sculture rituali, con templi, con antichi dipinti murali (Dunhuang, Yulin, Maijishan…). Oppure trovarsi in luoghi particolarmente pregnanti, come le vie sacre che conducevano ai grandi tumuli tombali, a volte anche senza rendersene conto, ignari dell’atmosfera che vi regna e del valore simbolico e religioso che rappresentano. C’è spesso una punta di grottesco in queste scene, laddove le vestigia dell’antichità troneggiano con la loro immobile ieraticità su gruppi umani sciamanti, un po’ goffi in abiti poco curati e in posizioni così poco eleganti ma sinceri nella loro curiosità, nel loro desiderio di penetrare il significato di quegli artefatti così preziosi, così perfetti, risultato evidente di una perizia ormai scomparsa in un mondo che pur ha fatto della tecnica il suo credo. C’è chi le opere d’arte le guarda solo in quanto tali e c’è chi – come Cao – vi si immerge per sentirle risuonare all’interno del ritmo dell’universo. Un universo in cui uomo e natura non sono separati, ma partecipano di una sola realtà vitale. Per certi versi in questi acquerelli la dimensione dell’antico è chiaramente divisa da quella contemporanea – l’antico è immobile, silente, evocativo, si mostra agli occhi degli uomini d’oggi con tutti i suoi misteri. Ma la convivenza dei due aspetti allude alla coesistenza di molte questioni, al continuo corso e ricorso della vita, per cui – come in un episodio della vita di Gautama – un semplice fiore può assurgere a simbolo assoluto di tutto quanto c’è, c’è stato e ci sarà.»

Dopo aver cominciato a frequentare l’Italia, dentro Cao è cresciuto un senso – diffuso fra i suoi concittadini sensibili e istruiti – di “mancanza” causato dallo scempio di architetture e artefatti perpetrato in Cina negli ultimi settant’anni. È una dolorosa sensazione di impotenza, acuita dal pericolo sempre più concreto che il collegamento con il grande passato della cultura cinese sia ormai reciso, che non sia più possibile frequentarlo in maniera intima e spontanea. Perché il poco rimasto è visibile solo in rare occasioni all’interno degli istituti museali, ma non fa più parte della quotidianità.

La dovizia di opere d’arte, le atmosfere d’altri tempi, i luoghi disseminati di vestigia, il ritmo ancora lento e la dimensione a misura d’uomo di molti luoghi europei, italiani (ma anche della Tailandia, che vediamo in alcune riproduzioni) acuiscono in Cao la nostalgia di un tempo in cui anche nel suo paese la vita aveva un altro gusto, e la bellezza era creata, diffusa e capita a vari livelli.

In un’epoca in cui gli artisti fanno a gara a creare opere sempre più grandi, dalle qualità spesso progettate per suscitare uno stupore anche solo effimero, i lavori di Cao Yingbin ci sorprendono per le dimensioni da miniatura, per il materiale deperibile e ‘povero’, per l’aspetto poco appariscente. Sono appunti di viaggio rielaborati in studio, riflessioni di un pittore che ama la pratica della calligrafia e le sue sottili sfumature espressive, e le applica con naturalezza in pittura. Sono opere da guardare a distanza ravvicinata, da tenersi accanto, con cui instaurare un rapporto intimo e personale. Sono immagini di soggetti familiari che, interpretate dal sensibile pennello di Cao, suscitano e ravvivano, arricchiscono e colorano ricordi tutti nostri. Ci stimolano a tornare a vedere un’opera, un museo, un paesaggio che conosciamo bene ma che giace sbiadito o distorto in qualche angolo della memoria. Sono frammenti di album, adatti a essere goduti a tu per tu, magari tenuti nascosti in un cassetto e mostrati, con parsimonia, solo a persone in grado di apprezzarli. Oppure da collocare in una stanza speciale, accanto ai libri più cari.

Il punto di vista di Cao, i suoi colori delicati, i suoi particolari a volte divertiti, ironici o grotteschi, altre disarmanti testimoniano l’importanza dello sguardo soggettivo e del suo ruolo creativo. Ci ricordano che solo un approccio attivo e consapevole a tutto quello che ci circonda – e alla nostra stessa esistenza – lo riempie di senso, diverso per ognuno di noi.

Vigolo Vattaro, 27 gennaio 2020


* Il Viaggio in Occidente è uno dei romanzi classici cinesi, attribuito al letterato Wu Cheng’en e risalente al sedicesimo secolo. In Italia è più conosciuto con il titolo Lo Scimmiotto, dalla figura del personaggio principale Sun Wukong: una scimmia molto intelligente dai poteri magici immensi, dal carattere capriccioso e insofferente all’autorità. Nel romanzo si raccontano le vicissitudini del monaco Chen Hui (ispirato a Xuan Zang, figura realmente esistita) che parte verso l’India in cerca delle Sacre Scritture Buddhiste, accompagnato da quattro creature in grado di difenderlo: oltre a Sun Wukong, Tian Peng (Porcellino), Sha Wujing (Sabbioso) e Yulong Santaizi (Cavallo-Drago).
1. Leggi Zao con la z aspirata come in zucchero.
j

Monica Dematté

Vive e lavora fra l’Italia e la Repubblica Popolare Cinese da oltre 30 anni, è curatrice e critica indipendente di arte contemporanea, scrittrice. Dal 2014 è la direttrice artistica del Mo Art Space 칭왕쇌 a Xinmi, Henan. Ha lavorato come curatrice presso il Singapore Art Museum e la Shanghai Gallery of Art e collaborato con la Biennale di Venezia.